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Phil Palmer: i 50 anni di “The Session Man”

Venerdì 21 aprile al Teatro Villoresi una serata per celebrare il chitarrista londinese

Phil Palmer intervistato nel foyer del Teatro Villoresi, Monza 2023©Rita Cigolini

Classe ’52, chitarrista, produttore e direttore musicale di fama mondiale. E una carriera che dura da 50 anni. Phil Palmer è apparso in più di 5000 canzoni, 500 album in studio e oltre 50 singoli numero uno in tutto il mondo.
Ha collaborato con artisti del calibro di Paul McCartney, David Bowie e Frank Zappa, girando il mondo con alcune delle più grandi e migliori band di una generazione, tra cui Eric Clapton, Dire Straits, Tina Turner, The Who e George Michael.
Celebri le collaborazioni anche con gli artisti italiani quali Lucio Battisti – suo il famosissimo assolo di chitarra de Con Il Nastro Rosa – ma anche Renato Zero, Eros Ramazzotti, Pino Daniele e tanti altri.

Nel 2021 ha pubblicato il suo primo libro, The Session Man e attualmente continua a portare in torunée il progetto Dire Straits Legacy.

Di questo e altro si parlerà venerdì 21 aprile al Teatro Villoresi di Monza, nella “data zero” di uno show che probabilmente dalla prossima stagione girerà l’Italia.
Senza anticipare la magia dello show dal vivo, condito da curiosi aneddoti sciorinati dalla conduzione di Paola Maugeri, ci limitiamo qui solo a stuzzicare l’interesse di chi ancora non conoscesse questo straordinario artista con qualche domanda rubata durante le prove, in vista dell’esibizione di venerdì.

Phil Palmer dal vivo – dal sito http://www.philpalmer.com

Phil, quando hai avuto per la prima volta coscienza che avresti fatto il musicista di mestiere?

«Ero giovanissimo, avevo circa 5 anni quando mi sono ammalato di musica! (Sorride) Mia madre mi regalò un piccolo ukulele: fin da quando ho cominciato a suonarlo ho sentito di avere la musica nel sangue. Una rivelazione. Al punto che non riuscivo più nemmeno a concentrami a scuola, il mio unico pensiero era ossessivamente rivolto alla musica. E quando arrivai a circa 16 anni capii, più consapevolmente, che la musica sarebbe stata il mio futuro».

Hai avuto l’approvazione e l’appoggio anche della tua famiglia rispetto a questa scelta?

«Purtroppo no. Mio padre era poliziotto. E totalmente contrario all’idea che stava dietro alla filosofia del rock’n’roll – fatto soprattutto di “sex & drugs”, per come la vedeva lui.  Proprio per questo motivo, per molti anni, abbiamo avuto una relazione piuttosto difficile. Ma d’altra parte in me il desiderio di fare musica era talmente forte, più grande di qualsiasi altro, da non lasciare concessioni. Neanche a lui. Finché un giorno venne a un mio concerto alla Royal Albert Hall: allora, vedendomi sul palco capì, meglio di tante parole, cosa avesse sempre rappresentato per me la musica».

Phil Palmer nella locandina del libro “The Session Man” (2021)


Se guardi la foto della locandina dello show o della copertina mio libro, quella con la chitarra in primo piano e l’ombra sul mio viso, da quei pochi dettagli nessuno potrebbe riconoscermi. L’ho scelta apposta perché spiega bene il mio ruolo e il mio mestiere.

Phil Palmer

Il titolo del tuo libro è The Session Man. Cosa significa essere un session man? È cambiata la reputazione di questa figura da quando hai cominciato a oggi?

«Sì, negli ultimi anni questa figura ha subito delle evoluzioni rispetto a quando ho cominciato. Io posso dire di essere stato un session man nel vero senso della parola, se ripenso a come veniva considerato il lavoro in studio nei decenni ’70 e ’80. Oggi però non direi più di esserlo, in conseguenza del fatto che l’approccio e in generale tutto il modo di registrare in studio, ha subito modifiche radicali.

Negli anni ’70 i session men passavano molto tempo in studio, prassi pur molto costosa per gli artisti. Artisti che cercavano professionisti capaci di interpretare il più correttamente e velocemente possibile l’idea di sound che avevano in mente per la propria esecuzione. I session men erano apprezzati proprio per la qualità della loro collaborazione: questo era il loro ruolo e valore.

A partire dagli anni ’90 e poi attraverso i 2000 questo ruolo ha cominciato a diventare sempre meno importante. Anche perchè le tracce hanno cominciato a essere registrate in maniera più veloce. Ogni fase del processo di registrazione è diventata più semplice e più economica. Tanto che oggi è possibile registrare un album di media qualità anche senza session men: quella è la differenza».

Chet Atkins “Mr Sandman” (1954)


Hai avuto dei modelli di riferimento agli inizi della tua carriera?

«Non in particolare. Intendo dire che in quei giorni la mia ispirazione proveniva da diversi riferimenti. Ad esempio Chet Atkins era un musicista molto apprezzato al punto che negli anni ’50 e ’60 tutti cercavano di suonare come lui.
Così come quando è arrivato Jimi Hendrix sulla scena tutti cercavano di prendere un po’ del suo stile. Sfortunatamente non ho mai avuto modo di conoscere Hendrix, però ho avuto la possibilità di vederlo suonare dal vivo. La ricordo ancora come un’esperienza molto strana. Posso comunque assicurare che fosse tanto diverso e unico al punto che davvero potesse sembrare sbarcato da un altro pianeta».

Jimi Hendrix “Voodoo Chile” (1970)

Mai pensato in tanti anni di carriera di metterti “al servizio di te stesso”, ovvero diventare un solista?

«No. Anzi è qualcosa che ho sempre evitato di proposito. Non rimpiango un solo momento di questa carriera “in secondo piano”. In questa condizione ho sempre avvertito meno pressione e quindi avuto modo di lavorare più proficuamente. Ho sempre goduto della mia posizione ad esempio dietro Eric Clapton o Mark Knopfler o qualsiasi altro grande artista».

Una lezione imparata in questi 50 anni di carriera?

«Almeno tre. Concetti che in realtà non ho realizzato consciamente durante la stesura diretta del mio libro, ma quando ho cominciato a rileggerlo prima di editarlo. Lì ho portato alla luce tre fattori importanti che hanno interessato tutta la mia carriera.

Prima di tutto le connessioni: essere un musicista, in particolar modo un session man, significa sviluppare un certo tipo di “connessione”. Non si tratta solo di un requisito professionale, ma qualcosa legato al fatto che con le persone con cui lavori inevitabilmente si sviluppa un tipo di relazione che spesso sfocia nell’amicizia. Persone che fanno inevitabilmente parte del tuo percorso e prendono decisioni condizionate anche sulla base di un rapporto di amicizia.

E infine, dopo connessioni e amicizia, la terza cosa più importante: il “timing”, il tempo, ovvero l’occasione. Perché puoi essere talentuoso, capace di connetterti e un grande amico…ma se sei “fuori timing” non ti serve a nulla. A me è capitato di essere nel luogo giusto al momento giusto. E di essere fortunato. È ciò che aiuta di più nei momenti in cui si devono prendere appunto decisioni importanti. Una lezione non solo professionale, ma anche di vita».

If timing it’s wrong, then you’re in trouble

Phil Palmer

Venerdì con Paola Maugeri ripercorreremo i capitoli più significativi della tua carriera. A prescindere dall’importanza di ciascuna delle tue collaborazioni, quali ami di più ricordare?

«Sicuramente quella con Eric Clapton, è una di quelle che mi ha dato più gioia. Un vero grande momento di gioia nella mia carriera e nella mia vita. Soprattutto perché all’inizio degli anni ‘90 la band di Eric era probabilmente davvero la migliore al mondo, con musicisti come Steve Ferrone o Nathan East. Sono stato davvero orgoglioso di fare parte di una band del genere. Così come anche la collaborazione con i Dire Straits: fu un periodo fantastico».

Eric Clapton “Before you accuse me” (1990)


Il tuo assolo ne Con il nastro rosa (1980) di Lucio Battisti è considerato uno dei più belli della storia della musica italiana. Come ricordi, dopo 50 anni, quella session?

«Una giornata molto strana. Geoff Westley, lavorando sulla traccia base, si era reso conto che sarebbe stato opportuno un assolo. Mi chiamò allora di lunedì mattina alle 8:30 – per me prestissimo! – chiedendomi di venire in studio per produrre l’assolo. Quella stessa mattina però avevo appuntamento col dentista e scelsi di passare in studio senza perdere troppo tempo. Ricordo anche Lucio Battisti, molto silenzioso e timido, ma sempre presente per le decisioni finali.
Geoff mi mandò la traccia in cuffia e io ascoltando cominciai a suonarci sopra. Si trattò due o tre take al massimo. Alla fine dissi a Geoff “prendi pure quello che ti serve” e me ne andai dal dentista senza sapere più nulla.

Lucio Battisti “Con il nastro rosa” (1980)


Circa 10 anni più tardi mi trovavo in Italia, in viaggio in auto con un amico, Fabrizio Intra. E sulla strada di ritorno dall’aeroporto alla Sony Music, mentre ascoltavamo la radio passarono Con il nastro rosa. “Questo stile sembra proprio il mio!” dissi a Fabrizio. “Cosa significa sembra?! Sei tu!” mi rispose lui. Non avevo idea che i miei assoli fossero stati presi e rimontati nella canzone. Oggi sono orgoglioso di questo piccolo pezzo di storia e mi piace sempre riascoltarlo. O se capita risuonarlo. E pensare che mi sono dovuto persino rimparare da zero quell’assolo, così istintivo durante quella rapida sessione, pura improvvisazione».

Dopo Lucio Battisti le collaborazioni con artisti italiani sono state numerosissime. Tra questi c’è qualcuno in particolare a cui sei particolarmente legato?

«Sicuramente Pino Daniele. Uno dei musicisti italiani che ho amato in assoluto. Sfortunatamente l’ho incontrato troppo tardi, solo negli ultimi tre o quattro anni prima della sua morte. Abbiamo avuto modo di collaborare ad alcuni progetti. Avevamo le stesse idee, gli stessi feeling, la stessa anima musicale. Un modo molto simile di sentire la musica.  Insomma buone connessioni (ammicca). Pino era unico nella sua maniera di interpretare la musica. E suonava in un modo che trovavo affascinante. Così come lui amava il modo in cui suonavo io. Ci stimavamo a vicenda. È stato un grande rapporto professionale e di amicizia. Un grande amico. Mi manca molto».

Pino Daniele e Phil Palmer dal vivo a Taormina


Lo show di venerdì prevede tuoi brani alternati a una sorta di talk insieme a Paola Maugeri. Come ha preso forma l’idea di questo show?

«Tutto nasce dalla pubblicazione del mio libro, The Session Man (2021) e in particolare dalla traduzione italiana da parte della casa editrice Minimum Fax. È stato abbastanza naturale combinare insieme libro e spettacolo – che non a caso hanno la stessa cover.
Quella di venerdì qui al Villoresi di Monza sarà la “data zero”, in seguito penso ne pianificheremo altre. Sarà importante per avere questo primo riscontro».

In tema di grandi chitarristi vorrei chiudere con tuo ricordo riguardo la recente scomparsa di Jeff Beck.

«Jeff era semplicemente un genio, aveva un meraviglioso modo di suonare, davvero superbo. L’ho incontrato solo un paio di volte quando lavoravo con Eric, ma è stata una bella esperienza.  Era unico. Ecco, è quello che dico spesso anche ai miei allievi: “Cercate di essere unici”. Prendete pure ispirazione da altri, ma siate unici. Siate voi stessi. Come lo sono stati Jeff Beck e Jimi Hendrix. Anche se nel caso di Jimi continuo a credere che l’ispirazione venisse da altri pianeti…(sorride)».

©Luca Cecchelli

Ad accompagnare Palmer sul palco una super band formata da:  
Andrea Cervettovoce e chitarra
Noto frontman, componente del Mito New Trolls e scelto da Brian May per il musical We Will Rock You
Alex “Polipo” Polifrone alla batteria
Mito New Trolls, Loredana Berté, Enrico Ruggeri, We Will Rock You
Paolo Polifrone al basso
Loredana Bertè, Alberto Fortis, Alex Britti, Dolcenera, Ultimo solo per citarne alcuni
Carlo Palmas alle tastiere
Direttore Musicale e pianista dello Spettacolo teatrale di ANDREA PUCCI; come tastierista e producer, suona nei dischi di: Laura Pausini, Nek, Il Volo, Marco Mengoni, Lorenzo Fragola, e tanti altri

Adattamento e Testi: Alessandra Cinelli
Regia: Chiara Valli

21 Aprile 2023, ore 21.00
Teatro Villoresi, Piazza Carrobiolo, 6,
20900 Monza MB

Info e aggiornamenti sulla pagina Facebook ufficiale
https://www.facebook.com/philpalmer.official



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